Globalizzazione, cambiamenti climatici e crisi migratorie
Gli effetti di un mondo "non più Sostenibile"
Gli effetti di un mondo "non più Sostenibile"
La globalizzazione è quel processo che, ormai da più di un secolo, ha portato numerosi benefici, tra cui lo sviluppo economico, la diffusione della tecnologia e delle idee, oltre ad un maggiore accesso a mercati e risorse globali. Tuttavia, ha anche generato (e alimentato in modo ancor più accentuato) disuguaglianze, sfruttamento e crisi ambientali.
Con riferimento al fenomeno della Globalizzazione, che in realtà è sempre esistito, facciamo un grande passo indietro, ci spostiamo nel basso medioevo, esattamente tra ‘400 e ‘500, il periodo delle grandi scoperte geografiche e degli impavidi navigatori europei transoceanici, considerati i pionieri della globalizzazione.
La storia ci racconta però che tra l’oceano Indiano e il Pacifico, già molti secoli prima che i velieri dei conquistadores europei ne solcassero le acque, ferveva un’intensa attività di esplorazione via mare da parte delle popolazioni asiatiche. Tant’è che numerosi storici parlano di “Globalizzazione dell’anno Mille” per indicare tale periodo storico, contraddistinto da rotte commerciali marittime a lunga distanza che gli occidentali avrebbero sperimentato solamente centinaia di anni dopo.
Il mondo asiatico dell’anno Mille era, quindi, a tutti gli effetti un mondo globalizzato, dove tra i due oceani viaggiavano: uomini, merci e idee. Prendiamo l’esempio dei Polinesiani una popolazione che, partendo dalla Micronesia, dominò le acque dell’oceano Pacifico, allargando le proprie mire espansionistiche fino alle Hawaii e alla Nuova Zelanda.
Dunque, i Polinesiani “partirono alla conquista del mondo intorno a loro” e lo fecero intorno all’anno Mille. Ma perché proprio allora? Tra le ipotesi avanzate dagli storici ci sono una possibile crisi ambientale o più semplicemente una variazione climatica, come ad esempio un incremento dei venti, che avrebbe reso più semplice la navigazione verso mete lontane.
Alla luce di quanto appena scritto ci accorgiamo che la globalizzazione e le migrazioni sono, quindi, due fenomeni interconnessi da sempre.
Con riferimento specifico alle crisi migratorie, queste sono spesso una conseguenza diretta della globalizzazione. Esse, al giorno d’oggi, possono essere scatenate da vari fattori, tra cui: instabilità politica, conflitti armati, violazioni dei diritti umani e disastri naturali (provocati a loro volta dal riscaldamento globale e dalla siccità, dalle inondazioni, etc.).
Analizziamo ora più da vicino la correlazione tra globalizzazione e crisi migratorie, causate dai dai cambiamenti climatici. Tenendo ben a mente la gravità che i cambiamenti climatici hanno sulla salute dell’essere umano.
Fenomeni legati alle eruzioni vulcaniche e alle fluttuazioni della radiazione solare sono responsabili da sempre dei periodi di raffreddamento e di riscaldamento del pianeta, ma dalla rivoluzione industriale (dell’800) in poi si è assistito a una graduale modificazione del clima, con temperature sempre più alte. Infatti, la combustione di carbone, petrolio e gas ha incrementato la concentrazione dei gas serra nell’atmosfera, ulteriormente aggravata dal boom di allevamenti intensivi verso la seconda metà del ‘900.
Il problema di tutto questo è il forte impatto sulla salute umana (e non solo) che secondo la World Health Organization (WHO) potrà causare, tra il 2030 e il 2050, circa 250.000 decessi in più all’anno!
La minaccia del riscaldamento globale ha spinto, nel 2015, 196 paesi a firmare l’Accordo di Parigi in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP21). In base all’Accordo, ciascun Paese firmatario è tenuto a raggiungere degli obiettivi climatici entro la fine del secolo, in primis quello di mantenere la temperatura al di sotto dei 2° C rispetto ai livelli preindustriali. In modo che le emissioni di gas a effetto serra dovranno arrivare al picco prima del 2025 per poi diminuire del 45% entro il 2030 fino a raggiungere lo zero netto entro il 2050.
Un traguardo, a nostro avviso (forse) fin troppo ambizioso! Soprattutto perché molti governi sottovalutano ancora l’impatto delle emissioni di gas serra per la salute globale nel suo insieme.
Il riscaldamento climatico sta trasformando anche continenti da sempre più miti, come l’Europa, nel luogo ideale per la diffusione di patogeni che possono provocare malattie a carico di diversi organi o indurre parti prematuri. Nel recente articolo “Un umanità in fuga” di Legambiente leggiamo come siccità, inondazioni e tempeste concorreranno alla contaminazione dell’acqua potabile, alla successiva diffusione di gastroenteriti e perfino alla propagazione di epidemie. Inoltre, quasi l’intera totalità della popolazione mondiale, con i paesi a basso e medio reddito in cima alla lista, respira livelli di inquinamento atmosferico ben oltre i livelli soglia stilati dalla WHO che, in concerto, peggiora il 58% delle 277 malattie patogene umane conosciute.
Lasciando il vecchio continente, se ci spostiamo verso il Sud del mondo, tutti questi fenomeni vengono aggravati dalle determinanti sociali e dalla scarsità di infrastrutture. Ad esempio, le donne in situazioni svantaggiate (immigrazione ed estrema povertà) sviluppano, purtroppo, più facilmente malattie endocrine.
Proprio alla luce di questa situazione, entro il 2050, secondo l’IOM (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) più di 200 milioni di persone potrebbero essere costrette a emigrare a causa degli effetti del surriscaldamento globale. Un dato davvero sconvolgente, ma è ancor più sconcertante il fatto che tutto questo non si fermerà, o quanto meno non diminuirà, senza un’azione concreta da parte dei paesi di tutto il mondo.
Appare evidente come a pagare il “prezzo” più alto della crisi climatica siano i paesi sottosviluppati dell’Africa subsahariana e del subcontinente indiano. A confermare questa tesi, uno studio della Stanford University ha intrecciato i dati sulla crescita economica con l’andamento delle temperature nel mondo tra il 1961 ed il 2010. Dalla ricerca in esame è emerso come, tra i paesi con economie in via di sviluppo, il PIL pro capite si è ridotto tra il 17% ed il 31% a causa del riscaldamento globale.
Non a caso, stando alle stime della Banca Mondiale, entro il 2050 circa 216 milioni di persone saranno costrette a migrare da questi Paesi a causa delle conseguenze del cambiamento climatico.
Di conseguenza bisogna convincersi che una giusta soluzione per affrontare questa crisi sta nell’applicare il principio della discriminazione positiva, ossia il principio in base al quale tutte le misure prese dalle autorità pubbliche dovrebbero avere come obbiettivo principale quello di proteggere le persone svantaggiate e le famiglie più deboli, allo scopo di realizzare un’uguaglianza di fatto che la semplice uguaglianza di diritto non riesce a garantire.
Ridurre le disuguaglianze nel mondo è una sfida complessa che richiede l’impegno sia di Governi che delle Organizzazioni di tutto il mondo. Queste istituzioni sono chiamate a incentivare lo sviluppo sostenibile, ovvero a promuovere modelli di sviluppo che siano sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale, proteggendo le risorse naturali e garantendo che lo sviluppo economico non avvenga a spese delle generazioni future o dei gruppi più poveri.
La crisi climatica, infine, non dev’essere vista come crisi che riguarda solo l’ambiente, ma come una crisi umanitaria in grado di minare i diritti fondamentali delle persone e delle comunità in tutto il mondo. Basti pensare che nelle aree più povere del globo la corsa all’accaparramento delle risorse territoriali e il progressivo degrado delle condizioni ambientali (peggiorate dal riscaldamento globale), portano anche allo scoppio di conflitti armati tra gruppi sociali. Una vera e propria “guerra dei poveri” alimentata da politiche ambientali scellerate introdotte dai Paesi più ricchi ma non per questo più lungimiranti.